Albino Armani

Il coraggio della spontaneità

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La bellezza del mezzo sorriso ha la stessa risonanza di un tasto del pianoforte pigiato con delicatezza, come a sfiorarlo, lasciando che il suono si disperda nell’aria e avvolga con le sue onde tutto ciò che incontra. Il mezzo sorriso è di chi non necessita di fuorvianti coperture e non ha paura di lasciarsi osservare nella nudità del proprio essere più vero, quello che non è celabile nella trasparenza talvolta impressionante degli sguardi. Il mezzo sorriso slancia l’attenzione verso gli occhi, da cui spesso e volentieri si carpisce qualcosa di ben più reale della forma. Il mezzo sorriso di Albino Armani lascia che siano gli occhi a cedere al mondo l’energia vitale, quel desiderio di fare e di vivere che muove i passi dell’essere umano sulle salite e sulle discese perennemente impervie.

 

Albino Armani sarebbe pronto ad aprire la sua cantina di Dolcè, ove custodisce il proprio archivio di annate storiche, persino a mezzanotte, pur di dire di sì ancora una volta alla vita, senza perdersene nemmeno un solo minuto. Pur di dare la parola al suo vino e lasciarlo esprimersi davanti alle persone con cui decide di condividerlo, fossero anche dei perfetti sconosciuti. Albino Armani è anche colui a cui basta porgere timidamente la mano e sarà lui il primo a proporti di saltare. Albino è un viticoltore che ama esplorare senza sosta i propri vini e, attraverso di essi, le proprie terre, aprendo bottiglie capaci di riproporre la misteriosissima carnalità del tempo. L’unico criterio assunto da Albino Armani pare che sia il desiderio di vivere. Senza se e senza ma. Senza stanchezza e senza quei lacci che qualcuno giustifica sotto il nome di marketing.

Non è tanto il fatto che Albino Armani abbia lottato per recuperare dei vitigni abbandonati come il Foja Tonda, a renderlo un uomo vivo. È forse più quell’instancabile energia nell’andare, indipendentemente dai venti, dai percorsi o dalle condizioni dei propri arti.

La tradizione contadina familiare quadrisecolare lo ha portato a trovarsi dentro la realtà vitivinicola che oggi conduce insieme alla moglie Egle, femminile complementarietà di Albino con quella solarità forte che le si legge in volto a caratteri maiuscoli. Albino ha voluto sguazzarci, dentro questa realtà contadina. Ha voluto scavare, ha voluto correre, ha voluto arrampicarsi. Talvolta è caduto, altre invece si è dovuto fermare e ritornare indietro. Ce ne sono state alcune, invece, dove il panorama atteso si è rivelato ancora più potente e meraviglioso del sogno. Albino ha cercato ciò che voleva. Non ha trovato tutto, come ogni animo inquieto, ma qualcosa certamente sì, all’interno delle sue tenute vitivinicole site in Valdadige, in Valpolicella, nel Trentino del Monte Baldo e nella Grave Friulana, per poi scandagliare ogni dogma con la viticoltura biodinamica di Casa Belfi nella provincia di Treviso. Ha un conto aperto con il Pinot Nero e un dialogo con il Metodo Classico trentino durato anni, che si è evoluto in una complicità di espressioni fra il vino e il suo vignaiolo. Espressioni rudi e armoniche. Perché quello che ricerca Albino, nelle sue terre di collina, non è l’accondiscendenza del nettare ma bensì un’identità priva di assoluto, dipinta nella fisionomia del proprio contesto, sia territoriale che umano.

Stringere la mano ad Albino Armani è come imprimere i contorni di un profilo sulla carta. Il saluto ne assume tutte le sfumature di colore, dissolvendosi nella direzione del vento che muove delicatamente il volto verso le vigne, per posarsi ancora una volta su qualcosa di vivo.

Trento Doc “Clè” – Albino Armani

“Clè”, chiave. La chiave interpretativa del Metodo Classico Trentino, originariamente prodotto a quote di alta collina e così foriero di acidità. Il naso coinvolgente regala la liquirizia e l’orma del lievito, sullo sfondo gessoso. La bocca è acida, acidissima. Una delle bollicine trentine più taglienti e citriche mai assaggiate. Tagliente e finissimo, dotato parimenti di rusticità ed eleganza, come la sua terra.