pagnocelli

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Delicata possenza

Custodire quell’insoluto mistero della femminilità è qualcosa che va oltre l’estetica e l’apparenza.

È qualcosa che appartiene alle viscere di ogni donna, è l’immensità talvolta spiazzante in cui ci troviamo per nascita ad addentrarci, per scoprire la complessità di noi stesse e quella del mondo; un mondo visto con gli occhi vulnerabili, tenaci, delicati, forti, ora inermi e ora guerrieri, nudi e senza fondo di una donna; un mondo che con i suoi spigoli rifrange l’intensità con cui lo guardiamo, con cui lo respiriamo e lo sfioriamo, fino ad accarezzarlo, fino a posare sopra di esso le labbra in un bacio appassionato.

Essere donna, talvolta, è un mistero anche per noi stesse, poiché ci rende la misura sconfinata delle nostre tonalità, che spesso e volentieri virano nei toni pesti e impressionanti delle tinte scure, così come in quelli leggeri del pastello. Per troppo tempo la nostra oscurità è stata maltrattata e rinchiusa nel buio, il nostro intuito mortificato in un ruolo e la nostra tenerezza percossa violentemente dall’indifferenza. Per troppo tempo gli occhi che chiedevano di essere guardati sono stati bombardati nella loro superficie e lasciati soli, a farsi carico della propria profondità.

Ecco perché incontrare certe donne assume la stessa valenza di uno specchio, che riflette la potenza della femminilità intesa nella sua forza d’essere, che è di quanto più lontano possa esserci dalla definizione.

Francesca Pagnoncelli è una di quelle donne. E, con lei, il suo Moscato di Scanzo.
“Il richiamo della terra esiste – afferma Francesca, raccontando della sua storia – Quando lavoravo a Milano e sapevo che qui stavano crescendo le albicocche, diventavo matta. E alla fine ci sono tornata”.

Casa Pagnoncelli non era solo una dimora storica, con l’impianto seicentesco e i soffitti affrescati; era anche e soprattutto un luogo di vita quotidiana e di passioni in atto. Era il luogo dove il nonno di Francesca piantò le prime barbatelle di Moscato di Scanzo nel secondo dopoguerra, quando gli ardimentosi avventori alla vinificazione di questo misterioso vitigno autoctono di Scanzorosciate si contavano sulle dita di una mano.
Vitigno misterioso, sì. Misterioso poiché tutt’oggi si conosce l’identità di un solo genitore, il Moscato Giallo, cedendo l’altro all’ignoto. “Forse è giusto che non si conosca” ricorda saggiamente Francesca, accogliendo integralmente quel suo vitigno così enigmatico, criptico, disposto all’apertura solo con chi gli mostra l’eccezionalità di un’intesa, instaurando con lui un’intima complicità.

Il Moscato di Scanzo è un vitigno che potremmo considerare realmente femminile. E con lui, il vino che da esso si origina. Femminile perché solo in apparenza mansueto. Femminile perché complesso e sorprendente nello sferzo del suo carattere forte. Un vino dolce solo per l’occhio distratto che affonda nelle sabbie mobili dell’edulcorazione perdendosi la profondità potente, rude e finissima della trama. Accarezza il palato con la morbidezza zuccherina ma non permette ad alcuno di cancellare il suo timbro verde e neppure quello tannico. Lascia che sia la tensione acida a scortare lo sviluppo di un sorso sbalorditivo, con le movenze sinuose di un nastro che danza fra i palati di chi lo sa riconoscere.

Il Moscato di Scanzo si veste di una femminilità finalmente reale, vera, selvaggia. La sua uva lo è, e persino la pianta che le dà i natali. Si tratta infatti di una vite con dei netti tratti selvatici nella sua esuberanza difficile da contenere. La sua energia passa da ogni tralcio, da ogni viticcio, da ogni germoglio, poiché ogni parte della pianta si dirige verso qualcosa di diverso da lei, afferrandolo e aggrappandocisi, in una sorta di moto vitale assimilabile alla curiosità.

La stessa energia passa dal temperamento inarrestabile di Francesca, che racconta dei progetti di cui si è fatta promotrice. “Volevamo fare ancora, volevamo fare dell’altro. Ma a noi non si addiceva fare un Valcalepio Rosso – sorride, con quella luce negli occhi di chi non ha alcuna intenzione di fermarsi – A noi si addice la sperimentazione”.

Ed è in effetti questo l’unico motivo per il quale, varcando la soglia dell’azienda Pagnoncelli, ci si troverà dinnanzi non a una ma a ben due birre, ottenute rispettivamente a partire dai mosti di Moscato di Scanzo e di Moscato Giallo. Ma non solo.

Non era abbastanza. Ci voleva anche una grappa. Ma si sa, quando si fanno le cose, le si fa al meglio. Ecco che, quindi, la Grappa di Moscato di Scanzo non poteva essere distillata da un personaggio qualunque: fu Capovilla a innamorarsi del Moscato di Scanzo Pagnoncelli e a decidere di mescolare il suo talento con quello di Scanzorosciate.

“Prendi il bicchiere e andiamo, che ti mostro la casa”. Così Francesca ci introduce nel suo mondo, portando con sé quel monile prezioso che sgorga dalle sue vigne come un regalo, che lei è capace di custodire come pochi.